Possiamo dire che tra le cose che hanno unito l’Italia c’è anche la cultura del vino? Noi crediamo di sì.
Quando il Paese si è ritrovato di nuovo a essere uno e indiviso, dal 1861 in poi, pochi erano gli elementi che potevano far pensare a una reale unità. La lingua ufficiale, l’italiano, era parlata correntemente solo dai ceti più abbienti e scolarizzati e non in maniera uniforme su tutto il territorio. Certo, esisteva una letteratura in italiano ma, anche questa, non era che privilegio di pochi. Gli usi e le consuetudini, nelle campagne come nelle città, erano diversi. Anche la cucina era, e fortunatamente lo è ancora, una cucina regionale con tutte le differenti ricchezze che ancor oggi possiamo trovare sulle nostre tavole.
Ma un elemento di base in grado di unire il Paese c’era: il vino. Dalle Alpi all’Etna, con tutte le diversità del caso, c’era una cultura unica che univa i nostri avi: in tutte le regioni, province, campagne e città dello Stivale si sapeva coltivare la vite e farne del vino. Fu proprio partendo da questa convinzione che all’inizio del 1880, diciannove anni dopo l’unità del Paese, tre intellettuali torinesi decisero di dare il via a un ciclo di undici conferenze, pensando che solo parlando di vino sarebbero riusciti a interessare tutta Italia e a unirla attorno a un comune tavolo di discussione. Questi tre intellettuali erano Arturo Graf, Giuseppe Giacosa e, soprattutto, Edmondo De Amicis.
Graf era un intellettuale riconosciuto dell’epoca. Professore universitario prima a Roma e poi a Torino, grande esperto di letteratura italiana, romanza ed europea, era nato ad Atene e aveva conosciuto molto del Continente seguendo gli spostamenti della famiglia. Con le sue poesie e con le sue critiche letterarie, era diventato un punto di riferimento per la corrente razionalistico positivistica dell’epoca. Giacosa era un drammaturgo, scrittore e librettista (soprattutto per Puccini) di buonissima famiglia le cui radici erano, cosa da non sottovalutare, nelle Langhe. De Amicis lo conosciamo tutti: è l’autore di Cuore, un libro che tutti i ragazzi della mia generazione e di quelle precedenti hanno letto, un manifesto del Risorgimento italiano per la sua dichiarata volontà di unire l’Italia attraverso i racconti di ragazzi di una scuola torinese, taluni provenienti da altre città e regioni.
I tre, dunque, nel gennaio del 1880 diedero vita a questo ciclo di conferenze sul vino che si tenne nella sede della locale Società Filotecnica e che vide partecipare alcune delle menti più brillanti che frequentavano la Torino dell’epoca, ognuna impegnata a disquisire partendo dal proprio campo di competenze. Graf aprì il ciclo con un intervento dal titolo “La Leggenda del Vino”. Seguirono, nell’ordine, il chimico Alfonso Cossa “La Chimica del Vino”; lo storico dell’arte Corrado Corradino “Il Vino nei Costumi dei Popoli”; Michele Lessona, divulgatore scientifico “I Nemici del Vino”; l’economista Salvatore Cognetti de Martiis “Il Commercio del Vino”; il botanico Giovanni Arcangeli “La Botanica del Vino”; il medico Angelo Mosso “Gli Effetti Fisiologici del Vino”; Giuseppe Giacosa “I Poeti del Vino”; il patologo Giulio Bizzozero “Il Vino e la Salute”; il medico e crimonologo Cesare Lombroso “Il Vino nel Delitto, nel Suicidio, nella Pazzia”. La chiusura spettò a De Amicis che trattò il tema: “Gli Effetti Psicologici del Vino”.
Si affrontarono temi che anche oggi sarebbero d’attualità, pur partendo da assodate certezze scientifiche che,
per esempio, Lombroso non aveva. Tant’è che solo due anni dopo da questo ciclo di convegni, il criminologo veronese, convinto che si nascesse criminali dalla nascita, fu radiato dalla Società italiana di Etnologia e Antropologia. Oggi le sue teorie sono ampiamente confutate ma allora era considerato lo studioso più moderno nel campo. De Amicis, nel suo intervento, riconosce che il vino “agisce sull’intelligenza, sull’immaginazione e sul sentimento” ma, con grande ironia, invita a restare “molto al di qua da quel limite funesto, varcato il quale il bevitore cade nelle mani del professor Lombroso”.
Il ciclo di conferenze ebbe un grande successo anche fuori dal Piemonte e se ne scrisse sui giornali più importanti d’Italia creando quel dibattito che i tre amici inseparabili si auguravano. Nacque anche così un pezzettino dell’Italia unita.
Flavio Semprini è un giornalista professionista free-lance. Scrive di sport, enogastronomia, edilizia e turismo e si occupa di uffici stampa e comunicazione per aziende, associazioni ed enti sia pubblici che privati. Ha scritto diversi libri, alcuni sulla cucina romagnola, utilizzando per questi ultimi il doppio pseudonimo di Luigi Gorzelli/Paolo Castini.