“Del maiale non si butta via niente!”. Quante volte abbiamo detto o ci siamo sentiti dire questa frase? Sarà anche banale e scontata ma contiene una verità. Il maiale è “tutto” una fonte di cibo. E lo era soprattutto nei tempi passati, fino a circa settanta anni fa, quando l’Italia non aveva ancora conosciuto il “boom” economico e nelle case contadine davvero si faceva di necessità virtù e non si buttava niente che fosse commestibile. Di questa tradizione fanno parte i tre salumi dei quali parliamo oggi, legati alle parche abitudini alimentari contadine di tre regioni del nord dello Stivale: la mortandela trentina; la marcundela (detta anche martundela, markandela o merkundela) friulana e la martondea veneta. Nonostante l’assonanza, non possono definirsi classiche mortadelle delle quali, possono essere considerate strette cugine. Vediamo perché.
La mortandela trentina
La mortandela è un salume tipico della Val di Non, in Trentino. Alla vista, la si riconosce dalla forma
tondeggiante tipo una polpetta schiacciata; al gusto, per il sapore affumicato. Si racconta che nei tempi antichi le famiglie della valle comprassero un maialino alla fiera di Ognissanti e lo allevassero per circa un anno nutrendolo solo con alimenti naturali quali il fieno, gli scarti degli ortaggi, le patate e la crusca. Dopo questo periodo di tempo il maiale veniva “smesso” e alcune sue carni (coscia, spalla, pancetta, gola, più raramente polmoni e cuore) venivano disossate, sgrassate, snervate e macinate in un mortaio insieme a delle spezie. L’impasto ottenuto veniva diviso in porzioni di circa due etti e lasciato asciugare su assi di legno spolverate di farina di mais o di grano saraceno. Dopo dodici ore, queste porzioni venivano affumicate a una temperatura di circa 25 gradi. Dopo di che venivano girate e il procedimento era ripetuto sull’altro altro lato della “polpetta” in modo da garantire un risultato uniforme. Infine si lasciava stagionare per un periodo variabile che andava da una settimana a un mese.
La mortandela Presidio Slow Food
Adesso il modo di preparare la mortandela è un po’ cambiato. Si utilizzano solo parti nobili quali coppa, spalla, pancetta e parte della coscia che vengono comunque “ridotte” a polpette schiacciate. La mortandela affumicata della Val di Non è oggi un Presidio Slow Food e, in questo caso, la ricetta tradizionale prevede che l’impasto venga avvolto a mano nell’omento, cioè nel reticolo del suino, prima di essere sottoposto ad affumicatura ed eventuale stagionatura. Ogni anno in ottobre a Tassullo, paesino della Val di Non, si tiene la manifestazione “La Mortandela pù bona“, durante la quale viene premiata la migliore mortandela affumicata dei produttori locali. La particolarità di questo prodotto sta nelle dosi delle spezie contenute nell’impasto, che non sono prestabilite, così ogni famiglia ha la sua ricetta che custodisce gelosamente. Ci sono anche altre zone in Trentino in cui si produce un salume chiamato mortandela. Ad esempio, un’antica ricetta di Caldonazzo (dove si tiene la Festa della Mortandela), prevede che si utilizzino il filetto e il fegato di maiale macinati.
La marcundela friulana
La marcundela è un insaccato tipico del Friuli Venezia Giulia che ha saputo conquistare l’attenzione e la tutela della Fondazione Slow Food che l’ha inserita nel suo progetto Arca del Gusto. Si trattava della sostanziosa colazione contadina consumata prima del lavoro nei campi per poter affrontare la lunga giornata di fatiche. Oggi è un prodotto tradizionale ancora diffuso in tutta la regione seppure con una ricetta lievemente diversa a seconda delle zone. Che la si chiami martundela, marcundela, markundela o markandela, questa specialità friulana è un prodotto tipico ben radicato nella cultura e nella gastronomia regionale. Proprio per questo ha meritato l’inserimento nell’elenco nazionale dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT) della Regione Friuli Venezia Giulia.
Come si fa la marcundela
La marcundela è un insaccato ottenuto dalla macinatura di alcune parti del maiale tra cui fegato, milza, reni, polmoni, grassi teneri del ventre e carni sanguinolente. La conciatura viene effettuata con sale, pepe e, talvolta, anche aglio e vino. Dall’impasto si ricavano delle sfere di circa 150 grammi che vengono insaccate anch’esse come per la mortandela trentina, nell’omento. La si ottiene facendo riposare per alcune ore le sfere di carne macinata e insaccata su un ripiano cosparso di farina di polenta. Un tempo era servita al mattino cotta in burro e acqua e accompagnata dalla polenta. Inoltre, prima della diffusione dei frigoriferi, veniva fatta stagionare nello strutto, in modo da poterla conservare più a lungo. Oggi, invece, si consuma fresca, generalmente non oltre gli otto giorni di conservazione. Il modo più classico per cucinare la marcundela è bollirla in una pentola colma di vino rosso; è diffusa anche la frittura in padella, sempre con un’abbondante aggiunta di vino.
La martondea veneta
La martondea, infine, è tipica delle zone centrali del Veneto. Componenti principali sono: polmoni, reni, una parte di cuore, pezzi di carne rimasti fuori dalle altre lavorazioni, sale e pepe. Tutte queste parti sono macinate insieme fino a creare un composto (tipo carne macinata). Anche in questo caso si compongono delle palline della grandezza di una polpetta che vengono avvolte nell’omento. Ma, in Veneto, le martondee vengono passate in un leggero strato di pane grattugiato e sono lasciate un po’ di tempo in frigo per fare sì che si “aschiughino”. Infine, vengono cotte in padella giusto con un filo di olio.
Flavio Semprini è un giornalista professionista free-lance. Scrive di sport, enogastronomia, edilizia e turismo e si occupa di uffici stampa e comunicazione per aziende, associazioni ed enti sia pubblici che privati. Ha scritto diversi libri, alcuni sulla cucina romagnola, utilizzando per questi ultimi il doppio pseudonimo di Luigi Gorzelli/Paolo Castini.