Di Tonino Guerra abbiamo accennato diverse volte nei nostri blog. Ne abbiamo parlato, ad esempio, quando abbiamo tracciato un itinerario cicloturistico dall’Hotel Doge a Santarcangelo, sua città natale; oppure quando abbiamo tentato di tracciare i confini fisico/politico/ psicologici della Romagna. Tonino Guerra, poeta dialettale sopraffino e sceneggiatore cinematografico di capolavori assoluti quali Blow Up del ferrarese Michelangelo Antonioni (per il quale nel 1967 ricevette la candidatura all’Oscar) o Amarcord del riminese Federico Fellini, era un uomo di mondo ma, nello stesso tempo, veramente legato alle sue radici romagnole, in particolare a quelle culinarie.
A questo proposito, sono famosi alcuni episodi. Uno riguarda una sua visita a Bordeaux. Chiamato nell’importante città della Nuova Aquitania per il conferimento di una laurea ad honorem seguita da una classica cena francese accompagnata dagli ottimi vini del luogo, Guerra non si fece scrupolo di dire che sì, il Bordeaux era un buon vino ma: “Meglio il mio Sangiovese dal profumo di viola che si abbina a tutti i piatti”. Un episodio precedente lo vide prigioniero di guerra nel campo di lavoro di Troisdorf, in Germania. Si racconta che per battere l’angoscia sua e dei compagni di sventura, Guerra recitasse le poesie in dialetto romagnolo di Olindo Guerrini e iniziasse a scrivere lui stesso poesie in romagnolo, iniziando così la sua “carriera”, incoraggiato soprattutto da Gioacchino Strocchi, un medico vicino di branda che di lui ebbe a dire in quei giorni bui: “Ha uno stile impressionistico, è un cervellaccio che promette bene”. Bene, pare che fra i racconti che Guerra faceva agli altri deportati, ci fosse anche quello di come sua mamma tirava le tagliatelle nella cucina di casa; di come le condisse e di come queste finissero prima nei piatti e poi negli stomaci dei commensali. Un racconto immaginifico come nello stile che poi avremmo imparato a conoscere, accompagnato da un’ampia gestualità. Questo suo narrare, di fronte alle scodelle vuote di tutto il campo di concentramento, pare fossero particolarmente gradito. Raccontò anni dopo lo stesso Guerra: “Mentre raccontavo tutti pendevano dalle mie labbra, deglutendo la saliva”.
Guerra fu, insomma, una persona che viaggiò molto per lavoro o per “cause di forza maggiore”, ebbe a che fare
con personaggi della cultura e dello spettacolo di tutto il mondo; mangiò i cibi più diversi e deliziosi in tutto il globo, eppure rimase sempre fedele alla “cucina di casa”, quella della sua terra d’origine e della sua infanzia. Perché? Come ebbe a dire lui stesso: “Il cibo e la cucina che si trasmettono nei secoli sono la vera arte del popolo. Tutti noi continuiamo a mangiare l’infanzia, i piatti delle mamme e delle nonne. Se tu nella giovinezza mangi le stesse cose buone, amorevolmente preparate da chi ti vuole bene, capisci poi cosa vuole il tuo corpo e quei piatti diventano importanti come l’aria che respiri”.
E quali erano i “cibi dell’anima” che preferiva? Certamente la piada. Raccontò un giorno a Sergio Zavoli: “In fondo la piadina è una bella testimonianza di quello che erano e che sono i sapori principali che teniamo in bocca. Ho trovato piade orrende in giro. Orrende perché mi baso su quello che mangiavo nell’infanzia. E siccome ho sempre mangiato la piadina di mia mamma, dico che quella di mia mamma è la più buona del mondo. La piada è il mio pane, quello che arriva ad alimentare i miei pensieri”. Come ha scritto Graziano Pozzetto in un suo libro dedicato al poeta, altri piatti della tradizione romagnola che Guerra amava moltissimo erano: “La pasta e fagioli, pasta e ceci; tagliolini in brodo o al sugo di pomodoro; baffucci o battutini in brodo; passatelli in brodo; pappardelle e tagliatelle al ragù; gli zuflot, ovvero i maccheroncini di Santarcangelo di Romagna che durante la sua infanzia si mangiavano in brodo. Da quel tempo, del resto, Tonino non ha cessato un solo istante di ricercare, ovunque nel mondo, i sapori dell’infanzia, le feste della tavola, le amicizie del desco”. E anche in questo era, indubbiamente, molto romagnolo.
Pasta e fagioli e pasta e ceci sono la testimonianza dell’uso secolare di portare in tavola tutto quello di mangiabile su cui si poteva mettere le mani. Siamo quindi nell’ambito della cucina povera – e spesso disperatamente povera – che per secoli ha consentito la sopravvivenza della maggior parte non solo dei romagnoli ma degli italiani tutti. I “baffucci” sono un’antica minestra romagnola dimenticata. Ce la racconta sempre Graziano Pozzetto in un suo libro “Le Minestre Romagnole di Ieri e di Oggi”, pubblicato da Panozzo Editore: “Minestra praticata nell’area riminese di un tempo, ma non soltanto, minestra povera ottenuta da un impasto di farina gialla da polenta (odiosamente predominante) e da farina bianca di grano, caratterialmente senza uova, ma lavorata (soprattutto la polenta) con acqua calda e sale, in modo che si ottenesse l’auspicato amalgama e legame tra le due farine, o grattugiata (ricavandone i graten) oppure sminuzzata assai finemente. Veniva cotta in acqua salata, talvolta in brodo vegetale, o d’ossa suine o bovine oppure ovine, oppure nel brodo di cottura dei fagioli, ma non solo. Il brodo (mai nobile e di sostanza) veniva condito e rinforzato con un soffritto di lardo e cipolla (ma anche aglio, prezzemolo, altri ortaggi o verdure o più propriamente erbe di campo, altresì aromatiche) e i fagioli, nonché conserva diluita (più raramente sala di pomodori o pomodori maturi in stagione). Con i fagioli si aveva, come segnalato, a disposizione l’acqua brodo di cottura scuro”.
Dei passatelli, abbiamo ampiamente trattato in questo blog, così come delle tagliatelle. Gli zuflot, invece, erano
una pasta che, scrive il sito il romagnolo.info: “Si preparava partendo da dei quadrettini di sfoglia. Li si allungava e arrotolava uno per volta su una cannuccia. Per chiuderli, li si premeva sui rebbi di una forchetta. Questo permetteva non solo di saldarli, ma anche di donargli le tipiche striature sulla superficie. Preparare questa minestra implicava un grande lavoro manuale e molta abilità. Il risultato finale era molto simile a quello dei garganelli. La pasta veniva cotta di solito nella zuppa di fagioli, condita con il soffritto. In genere gli zuflot erano cotti proprio dentro la pentola di coccio che conteneva la zuppa di fagioli. La minestra veniva aggiunta una volta che la pentola non era più sul fuoco e la si lasciava nella zuppa per mezz’ora prima di mangiarla”. Questa era la cucina romagnola che Tonino Guerra amava: memoria delle radici, tradizione e cultura.
Flavio Semprini è un giornalista professionista free-lance. Scrive di sport, enogastronomia, edilizia e turismo e si occupa di uffici stampa e comunicazione per aziende, associazioni ed enti sia pubblici che privati. Ha scritto diversi libri, alcuni sulla cucina romagnola, utilizzando per questi ultimi il doppio pseudonimo di Luigi Gorzelli/Paolo Castini.