Ostriche e cozze sono più conosciute delle capesante, tuttavia questi molluschi bivalve hanno una grande dignità sia in cucina, sia dal punto di vista salutistico. Infatti, rispetto alle sue “sorelle”, la capasanta ha molti meno grassi saturi (0,128 in un etto) contro gli 0,442 delle ostriche e gli 0,425 delle cozze. Inoltre, contiene gli Omega 3 (gli acidi grassi che proteggono cuore e arterie), il cui effetto viene potenziato dal potassio, potente regolatore della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa. Non bisogna però mangiarne molte, sia vengano servite come antipasto, sia come secondo piatto perché contengono comunque un po’ di colesterolo (24 milligrammi) e di sodio (dunque non saliamole o saliamole pochissimo): quattro esemplari ne contengono circa 0,4 grammi.
In cucina, si prestano tantissimo: possono essere grigliate, preparate in salsa di limone, affumicate, cotte alla mornay, accompagnate a un risotto o a degli spaghetti. Secondo gli studiosi, sono stati uno dei primi cibi consumati dagli uomini (come tutti gli altri molluschi) fin dall’epoca preistorica, perché facilmente reperibili. Qualche millennio dopo, persino il filosofo greco Aristotele (siamo nel 300 avanti Cristo), forniva dei suggerimenti su come mangiarle: “Cucinarle alla griglia e cospargere il frutto con dell’aceto, al fine di esaltare la loro dolcezza”. Questo sosteneva il grande pensatore ellenico.
Le capesante sono state per secoli un cibo popolare perché, come detto, facilmente rinvenibili. Erano abbondanti sulle coste atlantiche francesi e inglesi dove, ancor oggi, se ne trovano tante della specie Pecten Maximus che ha un diametro che supera tranquillamente i 15 centimetri e presenta almeno 15 coste per valva (quella mediterranea, la Pecten Jacobaeus, è più piccola e a fatica raggiunge i 15 centimetri). Verso la fine del milleottocento, però, sono diventate un cibo di lusso quando il loro numero è iniziato a diminuire drasticamente a causa dell’inquinamento dei mari e dell’eccesso nella raccolta. I prezzi così sono saliti e si è cominciato a “coltivarle” in allevamenti per rispondere alla domanda di mercato.
Il modo più “classico” di cucinarle, dalle nostre parti, è gratinarle. Una ricetta può essere questa. Innanzitutto, gli ingredienti occorrenti per quattro persone: 12 capesante, 1 decilitro di vino bianco secco, 50 grammi di burro, uno spicchio d’aglio piccolo, prezzemolo, timo, pangrattato, sale e pepe. Il procedimento è questo: si aprono le capesante, si toglie il mollusco dalla conchiglia eliminando anche la frangia marroncina. Si lavano la noce (il muscolo bianco) e il corallo (la parte arancione). Si lavano e si asciugano anche le valve. Si sistemano le capesante in un tegame, si aggiungono l’aglio, un cucchiaio di prezzemolo tritato e uno di timo. Si copre a filo con acqua e vino, si sala (con giudizio!) e si pepa. Poi, si mette tutto sul fornello a fiamma bassa e si cuoce per tre/4 minuti. A questo punto, si sgocciolano le capesante e si risistemano nelle loro valve, si cospargono con il pangrattato e con un po’ di prezzemolo tritato, si distribuisce sulla superficie il burro a fiocchetti, si mettono sotto il grill del forno e si tirano via quando sono dorate.
La capasanta è conosciuta anche con il nome di conchiglia di San Giacomo. Perché? Tutto si lega al
cammino di Santiago de Compostela. Un tempo, i fedeli che completavano il pellegrinaggio, non avrebbero pagato i vari pedaggi che sarebbero stati dovuti sulla strada del ritorno, se avessero mostrato ai gabellieri dei vari contadi e regni una capasanta raccolta sulle spiagge atlantiche galiziane. Poiché il cammino s’intraprendeva per raggiungere la cattedrale di Santiago de Compostela dove riposano, secondo la tradizione cristiana, le spoglie di San Giacomo il maggiore, uno dei dodici apostoli di Gesù, ecco creato il legame fra la capasanta e San Giacomo.
Del resto, questo mollusco ha un posto importante nella teologia cristiana essendo legato anche a una leggenda su Sant’Agostino. Si narra che questo dottore della Chiesa, un giorno abbia visto su una spiaggia un bambino che cercava di mettere tutta l’acqua del mare in una buca utilizzando una valva di una capasanta per il trasporto. Agostino legò l’azione del ragazzo al suo tentativo di spiegare l’infinità di Dio alla limitata mente umana. La capasanta è dunque un simbolo dell’umana limitatezza. Il papa emerito Joseph Ratzinger c’è l’ha, addirittura, nel suo stemma araldico. Ma la simbologia della capasanta non si ferma alla teologia cristiana. Sandro Botticelli, quando dipinge la sua “Nascita di Venere” fa nascere la dea della bellezza sì dalla spuma del mare ma dentro una capasanta. Insomma, la capasanta ha una sua dignità storica, artistica, culinaria e teologica. Niente da invidiare alle più conosciute cozze e ostriche.
Flavio Semprini è un giornalista professionista free-lance. Scrive di sport, enogastronomia, edilizia e turismo e si occupa di uffici stampa e comunicazione per aziende, associazioni ed enti sia pubblici che privati. Ha scritto diversi libri, alcuni sulla cucina romagnola, utilizzando per questi ultimi il doppio pseudonimo di Luigi Gorzelli/Paolo Castini.