Se l’origine di molti dolci della tradizione natalizia italiana si perde nella notte dei tempi, così non è per il pandoro. Questa “torta”, che in questo periodo dell’anno si accoppia con il più antico panettone sulle tavole di tutto lo Stivale, ha una data di nascita certa: 14 ottobre 1884. Si tratta dunque di un dolce “moderno” che ben presto si è fatto largo surclassando altri “dessert” che da più tempo facevano parte delle abitudini festaiole regionali.
In quella data, il pasticcere veronese Domenico Melegatti depositò il brevetto per un dolce lievitato a forma di stella a otto
punte al Ministero di Agricoltura e Commercio del Regno d’Italia. Ad aiutarlo nello scegliere la tipica fattura di questa bontà fu il pittore Angelo Dall’Oca Bianca che creò lo stampo a piramide tronca. Un dolce dagli ingredienti semplici: fior di farina, latte, uova, burro, zucchero, zucchero a velo, vaniglia e lievito di birra, a fronte di una preparazione decisamente complessa che abbisogna di una lavorazione in diverse fasi: l’intero processo produttivo può durare fino a sessanta ore. La tecnica consiste nella lievitazione di un impasto a base di farina di frumento contenente uova, latte, zucchero e burro. La prima operazione è la preparazione del lievito naturale. Si parte da un pezzo di “pasta acida fermentata”, denominata “madre”. Un buon lievito naturale per il pandoro ha un colore chiaro, un odore caratteristico dell’alcol e dell’acido lattico e triplica di volume al termine della lievitazione. La preparazione del lievito si svolge normalmente in tre fasi di lievitazione, alla temperatura ambiente di circa 21 gradi centigradi e necessita dalle 18 alle 24 ore, secondo il metodo adottato.
Dopo la lievitazione, s’inizia l’impasto degli ingredienti. Ogni azienda ha un proprio metodo d’impasto, che avviene in più fasi mediante apporti successivi degli ingredienti: farina, uova, latte, zucchero, burro, eccetera, che vanno ad aumentare l’impasto iniziale contenente il lievito “madre”. Di solito, la metodica d’impasto prevede quattro fasi. Un pandoro da un chilo cuoce in circa 50 minuti alla temperatura di 175°C. L’inzuccheratura e il confezionamento sono le ultime operazioni del ciclo produttivo. Durante il raffreddamento il pandoro viene cosparso con un velo di zucchero vanigliato impalpabile e confezionato in un sacchetto di plastica. Quindi il sacchetto viene chiuso con un sigillo metallico, o legato con un filo di metallo plastificato, e poi riposto dentro la confezione di cartoncino stampato con i colori e i marchi caratteristici di ciascuna azienda. Insomma, servono pochi ingredienti ma tanta maestria artigianale per mettere al mondo questa sciccheria.
Se è vero che il pandoro nasce solo alla fine dell’Ottocento per merito del “signor Melegatti”, è anche vero che il bravo pasticcere scaligero da qualche parte doveva aver preso inspirazione. E qui nascono interessanti teorie su quali siano stati gli antenati di quest’orgoglio di Verona, i dolci che l’hanno ispirato. Secondo alcune fonti le prime “tracce” del pandoro risalirebbero al Cinquecento, durante il periodo della Repubblica Veneziana, quando esisteva l’usanza di ricoprire con sottili foglie d’oro alcune pietanze. Proprio tra questi cibi sembra ci fosse un dolce conico, chiamato per l’appunto “pan de oro”. Un cibo non proprio economico ma, del resto, in quel periodo la Serenissima era un luogo nevralgico, dal quale passavano i mercanti più ambiziosi, i compratori più abbienti e i signori più ricchi alla ricerca di qualcosa di unico. E proprio nel lusso e nello sfarzo della grande Venezia dei Dogi e del Rinascimento, sarebbe nata quest’abitudine.
Altri sostengono che il pandoro sia l’evoluzione di altri dolci: il “Nadalin”, oppure il “Pane di Vienna”. Il primo è un dessert natalizio diffuso fin dal Milleduecento sulle tavole veronesi. Narra la leggenda che la prima volta fu cucinato per festeggiare il primo Natale di Verona sotto la signoria dei Della Scala. Rispetto al pandoro, il Nadalin è meno burroso e fragrante, ma più compatto e dolce. Anche la forma è differente: se, infatti, il pandoro ha una forma regolare standard a stella ed è molto alto, il Nadalin invece è molto più basso e non ha una forma ben precisa. Molti veronesi lo prediligono perché più legato alla tradizione della città e, nel 2012, ha ottenuto la certificazione De.C.O cioè la Denominazione Comunale di Origine. Il cosiddetto “Pane di Vienna” è, invece, un pane dolce tipico della tradizione austriaca, sempre a base di burro.
Ma non è mica finita qui. Altri ancora affermano che a ispirare Melegatti sia stato il “Levà”, altro dolce della tradizione
scaligera che le donne preparavano la notte della vigilia di Natale, con pinoli, canditi e una copertura di mandorle e zucchero. In pratica, Melegatti avrebbe tolto degli ingredienti come i pinoli, i canditi e la copertura di mandorle aggiungendone altri. E, per finire, c’è chi sostiene che l’antenato del Pandoro sia un “panis” preparato da un certo fornaio di nome Vergilius Stephanus Senex ai tempi dell’antica Roma, nel primo secolo dopo Cristo. Plinio il Vecchio lo menziona in un suo scritto minore e sostiene che gli ingredienti fossero fior di farina, burro e olio. Insomma, dolce moderno ma antenati (in ogni caso), antichi.
Flavio Semprini è un giornalista professionista free-lance. Scrive di sport, enogastronomia, edilizia e turismo e si occupa di uffici stampa e comunicazione per aziende, associazioni ed enti sia pubblici che privati. Ha scritto diversi libri, alcuni sulla cucina romagnola, utilizzando per questi ultimi il doppio pseudonimo di Luigi Gorzelli/Paolo Castini.