Scrivendo delle minestre e della loro importanza sulla tavola nostrana, togliamo ogni dubbio dicendo che il cappelletto in brodo (caplèt te brod) è il re incontrastato della categoria. Si tratta di una alta creazione romagnola, una minestra pregiatissima che si preparava per giornate particolari in famiglia e in occasione delle festività natalizie. La pietanza alle sue origini apparteneva alla parte più ricca della popolazione, i signori possidenti di terreni, la media borghesia e i prelati, per i contadini o i poveri di allora si trattava di un sogno.
La sua forma un po’ panciuta ispira opulenza, giovialità e la promessa di un pasto di goduria. La sua composizione ha subìto parecchie revisioni nel corso del tempo e dei luoghi, ma secondo la tradizione originaria si facevano senza carne ed era la regola fondamentale. Il ripieno che riempie il cappelletto (cumpast) si preparava la sera prima, in genere la vigilia di Natale, conteneva: uova, parmigiano grattugiato, ricotta e raviggiolo (un formaggio poco maturo fatto apposta per i cappelletti) e un po’ di noce moscata. Una volta fatta la sfoglia e il composto, le donne chiamavano tutti, dal nonno al nipotino, per la preparazione finale. Bisognava fare in fretta perché la sfoglia diventava dura e ruvida e si spaccava. La sfoglia si tagliava a cerchietti con un bicchiere e qui troviamo l’Artusi ci dà anche le esatte dimensioni del disco di sfoglia che deve essere di 38 mm di diametro*. Si riempiva meno della metà del cerchietto col ripieno, si ripiegava e si univano le due parti coi rebbi della forchetta. Oppure si tagliava la sfoglia col ferro delle pappardelle e in questo caso si otteneva un quadratino. In questi quadrati si poneva un po’ di ripieno e si piegavano i quattro bordi come per un fazzoletto da testa prendendo le punte e schiacciandole: era fatto il cappelletto, il piccolo cappello. C’era chi fatta l’operazione cappelletti usciva di casa imbacuccato per andare in chiesa e celebrare religiosamente il Natale. I cappelletti una volta preparati stavano lì, allineati sui taglieri, coperti da tovaglie di bucato e pronti per essere messi in pentola, come il vero simbolo dell’altra festa più godereccia del Natale. Nessuno si sarebbe sognato di di cucinarli asciutti col ragù, come le tagliatelle. I cappelletti dovevano trovare la loro gloriosa fine in cottura nel brodo, un misto di manzo e cappone. Sì il brodo di cappone, il gallo castrato: “di quel rimminchionito animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini”.* Il solo manzo darebbe un brodo carico di sapore, ma l’aggiunta del cappone lo rende più morbido per non infastidire oltre il lecito il sapore tenue del cappelletto e onorarne più degnamente la sua dipartita. La cottura era fatta al dente e si lasciavano riposare un poco nella pentola “per prendere il brodo”. Dopo il dovuto riposo, l’arzdora portava trionfalmente a tavola la zuppiera fumante. I piatti e le gole avevano finito di stare in trepida attesa e pregustavano di essere riempiti di questa delizia. Il brusio di sottofondo cessava immediatamente al riempimento dei piatti e i volti dei commensali preludevano ad un gioioso Natale.
La composizione del ripieno che si fa oggi è cambiata: è sparito il raviggiolo e, oltre alla ricotta e al parmigiano grattugiato, c’è l’aggiunta della carne. In accompagnamento o in sostituzione della noce moscata si aggiunge scorza grattugiata di limone, solo la scorza e nessuna traccia di albedo. L’aggiunta della carne è sicuramente una contaminazione che ci arriva dai nostri cugini emiliani per mezzo del tortellino che andava ad imbandire le tavole del Duca di Modena e che ha stimolato il Tassoni che lo cita nel “La Secchia rapita” e riporta addirittura l’origine del tortellino. La leggenda vuole di un fortunatissimo oste dell’agro felsineo che ebbe la ventura di ospitare nella sua locanda Venere e nel vederla scender dal letto nuda “l’oste felice di Venere mirò il divin bellico” e “l’arte di fare il tortellin apprese” **. L’oste non fa una piega davanti a Venere nuda e si limita ad osservarne l’ombelico e prender nota per fare il tortellino. In Romagna sarebbe finita diversamente! Si dice dunque che nella composizione del cappelletto di oggi rientra la carne e qui mi tolgo dalla questione e lascio il merito ai tecnici per le tante disquisizioni che l’argomento potrebbe scatenare. Infatti le variazioni sono innumerevoli e in ragione del luogo e del gusto: si va dalla carne bianca di cappone o gallina, dalla rossa di manzo o al lombo del maiale, ho sentito anche, molto orribilmente, citare la mortadella! Oggi per dare la forma definitiva al cappelletto si usa un ferretto circolare appositamente studiato e fatto a mo’ di timbro. Il prodotto che viene fuori è un cerchietto panciuto che ha perso la forma del piccolo cappello. Non ci facciamo tanto caso. Il brodo è rimasto, come vuole la tradizione, col sacrificio singolo del manzo e quello doppio del povero gallo che deve subire anche la castrazione. Piatti e gole restano sempre in trepida attesa.
Riferimenti bibliografici
* Pellegrino Artusi da “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” presentazione di Ave Ninchi – Editori Newton Compton** G. Quondamatteo, L. Pasquini, M. Caminiti “Mangiari di Romagna” – Giudicini e Rosa Editori – BolognaMolti spunti di questo articolo sono presi dal “Grande dizionario gastronomico ( e ricettario) romagnolo” di Gianni Quondamatteo – Grafiche Galeati Imola
Nato a Misano Adriatico (RN) nel 1951, mi sono diplomato come perito chimico industriale nel ’70 e laureato in farmacia nel ’74.
Ho collaborato per 3 anni con le farmacie di Riccione, per essere poi assunto nel settore ospedaliero, settore analisi e trasfusioni di sangue.
Ad oggi, mi occupo di diagnostica per immagini nel settore veterinario.