“In medio stat virtus” oppure “Est modus in rebus”. Sono due espressioni latine (la prima tratta da testi di filosofi scolastici medievali che si rifacevano ad Aristotele; la seconda dalle Satire di Orazio), che rendono bene quale dovrebbe essere il nostro rapporto odierno con il lardo: “La virtù sta nel mezzo” e “c’è una misura nel fare le cose”, questi sono i loro significati. Insomma, questo salume del maiale non dovremmo demonizzarlo ma non dovremmo neanche abbuffarci. Vediamo perché.
Il lardo è straricco di grassi (e come potrebbe essere altrimenti?). In un etto troviamo poca acqua (4 grammi);
pochissime proteine (1,76 grammi) e ben 94,16 grammi di grassi per un totale di 857 calorie. Ora, già questi numeri ci rendono chiaro perché in molte zone contadine dell’Italia dei secoli scorsi fosse ampiamente consumato. La vita dura di gente che lavorava tanto sfruttando il proprio fisico e le condizioni ambientali certamente più scomode, ne facevano un alimento quasi indispensabile per trovare le forze per affrontare la vita. Oggi non è più così perché il lavoro si è fatto generalmente molto meno faticoso, anzi, è piuttosto sedentario e dunque il lardo va consumato a piccole dosi e in momenti particolari, non tutti i giorni.
Per cui, se avete occasione di mangiarne una fettina sottile tagliata e posta su una fetta di pane caldo appena abbrustolito; oppure di gustarlo su uno spiedino di gamberoni al forno, approfittatene. Ma che sia un’occasione, non un’abitudine. Dall’altra parte, non va bene neppure la demonizzazione continua che si fa dei grassi animali come se solo questi fossero dannosi per il fisico mentre i grassi di derivazione vegetale, come le margarine o il burro, e gli strutti “vegani” fossero alimenti sanissimi. Non è così e non vale la pena rinunciare a un sapore e a un profumo di un cibo che sanno di storia e tradizione per trasformarlo in un ipotetico alimento “sano” ma senza gusto. In medio sta virtus, appunto.
Ma cos’è il lardo? E’ l’adipe sotto la cotenna del maiale che va dal collo alle natiche, compresa la parte alta dei fianchi. Di solito si distingue in lardo vero e proprio (la parte anteriore) e il lardo di schiena (la parte posteriore). Quando si lavora il maiale, questo grasso viene tagliato, aromatizzato e messo a stagionare. Dopo la stagionatura, viene venduto sottovuoto o al taglio, in fette di almeno tre centimetri di spessore.
Questo salume si trova in tutte le Regioni italiane nelle quali il maiale fa parte della tradizione culinaria ma i due tipi di lardo più conosciuti sono quello di Colonnata e il valdostano Lard d’Arnad. Il primo è un Igp (prodotto a Indicazione Geografica Protetta) della Toscana. Colonnata, non tutti lo sanno, è un paesino di poche centinaia di abitanti sulle Alpi Apuane, in provincia di Massa Carrara. E’ prodotto in conche di marmo strofinate con aglio, nelle quali vengono sistemati, a strati alterni, i tranci di lardo e una salatura ricca di aromi: chiodi di garofano, cannella, pepe, cumino, coriandolo, cardamomo, salvia, noce moscata e rosmarino. Le conche conservano il prodotto a temperature e umidità particolari per cui, alla fine, si ottiene qualcosa di unico e irripetibile. La stagionatura dura dai sei ai dieci mesi, durante i quali il lardo di Colonnata è costantemente monitorato in modo da accertarsi che, alla fine, risponda ai criteri richiesti. Il suo aspetto deve essere umido; il sapore delicato e quasi dolce; il colore bianco e leggermente rosato; il profumo fragrante; la sua presenza omogenea e morbida.
Il Lard d’Arnad (Arnad è un paesino di 1200 anime) è un Dop, cioè un prodotto a Denominazione d’Origine Protetta della Valle d’Aosta. Si ottiene dalla spalla di un maiale che pesi almeno 160 chili e abbia nove mesi d’età. La forma finale è quadrata per un peso variabile dai tre etti ai quattro chili. Un tempo era stagionato in recipienti di legno di castagno chiamati doils che non facevano uscire la salamoia. Le misure sanitarie moderne, invece, hanno eliminato i doils per dare spazio a più igienici recipienti in vetro. Tolta la cotenna, il lardo viene sistemato, a strati, in questi recipienti di vetro con del sale e dell’acqua che sarà stata fatta bollire in precedenza con altro sale e aromi quali rosmarino, alloro, salvia, pepe, ginepro, cannella, chiodi di garofano, achillea e noce moscata. I recipienti sono poi chiusi con dei coperchi sui quali vengono poste delle grosse pietre e così inizia la stagionatura che dura circa un anno. Per una conservazione più lunga dei dodici mesi si utilizzano vasi a chiusura ermetica. Il lardo di Arnad si consuma a fette sottili su fette di polenta abbrustolite e calde in modo che, sciogliendosi, sprigioni il suo aroma dolce e delicatamente aromatico. Una preparazione tipica è il bocon du diable (boccone del diavolo): il lard d’Arnad viene sistemato su una fetta di pane di segale prima sfregata con dell’aglio, abbrustolita in una teglia e spalmata di miele.
Flavio Semprini è un giornalista professionista free-lance. Scrive di sport, enogastronomia, edilizia e turismo e si occupa di uffici stampa e comunicazione per aziende, associazioni ed enti sia pubblici che privati. Ha scritto diversi libri, alcuni sulla cucina romagnola, utilizzando per questi ultimi il doppio pseudonimo di Luigi Gorzelli/Paolo Castini.