Un re polacco, esiliato in Francia, inventa il dolce napoletano per eccellenza. Com’è possibile? La storia della cucina e della pasticceria in particolare, è ricca di episodi che collegano Paesi e personaggi distanti, i quali si avvicinano grazie a queste arti. Non ci credete? Allora andatevi a rileggere questo articolo su Caterina de’ Medici e sull’ importanza che ha avuto nella cucina e nella gelateria francese della sua epoca. Oppure quest’altro articolo, fra storia e leggenda, sull’arrivo in Emilia-Romagna della zuppa inglese.
Babà o babbà?
Il dolce napoletano per eccellenza del quale stiamo parlando è il babbà. Noi lo scriviamo così, alla napoletana, mentre
dappertutto lo troverete scritto con una sola “b”: babà. Il fatto è che quando lo pronunci, ti riempie talmente la bocca quella doppia b che già ti fa pregustare sulla lingua, sotto le guance e in tutta la cavità orale la fragranza e la “voluttuosità” di questo dolce zuppo di Rhum. E scriviamo Rhum e non Ron o Rum perché La principale distinzione tra Rum, Ron e Rhum è la zona di produzione. Si scrive Ron quando l’origine del prodotto è in un paese di lingua spagnola. Il Rum arriva dai paesi anglosassoni, mentre il Rhum è distillato nei paesi di lingua francese. E, visto che stiamo parlando di Polonia e Francia…
Dalla Polonia a Napoli via Francia
Torniamo a bomba sulla domanda che ci siamo fatti nel primo paragrafo. Com’è possibile che il Babbà sia stato inventato da un re polacco esule in Francia? E’ andata così: Stanislao Leszczyński era stato re di Polonia in un paio di occasioni, in periodi diversi (siamo nei primi decenni del Settecento). Sconfitto dai russi, trovò riparo in Francia dal genero re Luigi XV e, dopo vari trattati che coinvolsero le monarchie di mezza Europa, gli furono affidati i ducati di Lorena e di Bar, nel nord-est della Francia. La capitale dei suoi possedimenti era Luneville ed è proprio in questa cittadina di poche migliaia di abitanti che vide la luce, per la prima volta, il babbà.
Stanislao re “goloso”
Stanislao probabilmente non era un grande guerriero ma di certo era un uomo colto, studioso, curioso della realtà e grandissimo gourmet. Alla sua corte, a un certo punto, si ritrovarono personaggi del calibro di Voltaire, Montesquieu e Saint-Lambert tanto che si parlava della sua reggia come di una “piccola Versailles”. E anche i bravi pasticceri, evidentemente, abbondavano. Ma fu proprio il re che decise di aggiungere uno sciroppo al Rhum al kugelhopf, dolce tipico da lui considerato troppo asciutto. Questo kugelhopf è una torta di tradizione alsaziana di grandi dimensioni, oggi preparata con lunghi tempi di lievitazione così da risultare soffice e ariosa. In principio, però, non era proprio così e il sovrano decise di bagnarla per prolungarne la morbidezza. La sua passione per la cucina lo portò a migliorare la ricetta, aggiungendo ben tre fasi di lievitazione, oltre ad altri ingredienti come uva passa, canditi e zafferano, spezia pregiata che aveva scoperto durante un periodo di prigionia a Istanbul (dal che si deduce che le galere, per i re, non fossero esattamente uguali a quelle dei comuni mortali).
Babbà come Alì Babà
Non era il babbà che conosciamo oggi ma era un suo antenato, diciamo così. A proposito. A trovargli il nome fu
sempre re Stanislao che decise di chiamarlo “Ali Babà” in onore del protagonista de “Le Mille e Una Notte”. Il sovrano ne fece dono alla figlia Maria, regina di Francia e così questo “nonno” del babbà sbarcò a Versailles. I pasticcieri d’elite della corte lo modificarono ulteriormente togliendo zafferano e canditi e gli diedero la forma attuale a cupola rigonfia. Passano gli anni e Maria Antonietta, celeberrima moglie di Luigi XVI e come lui finita decapitata a plàce de la Concorde durante la Rivoluzione francese, porta nel Regno di Napoli (dove la sorella Maria Carolina regna con Ferdinando II di Borbone) alcune bontà parigine come la besciamella, il gratin e anche il babbà. La prima testimonianza scritta sul babbà a Napoli risale al 1863 e si trova nel manuale di cucina italiana di Vincenzo Agnoletti. Ma bisogna attendere i primi del Novecento perché il babbà diventi un dolce diffuso fra la borghesia napoletana.
Un’altra evoluzione del babbà la si deve a Jean Anthelme Brillat Savarin, stella della gastronomia francese che, nell’Ottocento, elimina l’uvetta, aggiunge il burro e spennella il tutto di marmellata di albicocche. E’ questa la versione che i bravi pasticceri partenopei faranno propria fino a rendere il babbà quel dolce goloso che tutti noi oggi conosciamo.
Flavio Semprini è un giornalista professionista free-lance. Scrive di sport, enogastronomia, edilizia e turismo e si occupa di uffici stampa e comunicazione per aziende, associazioni ed enti sia pubblici che privati. Ha scritto diversi libri, alcuni sulla cucina romagnola, utilizzando per questi ultimi il doppio pseudonimo di Luigi Gorzelli/Paolo Castini.