Dopo i cachi, trattiamo oggi un altro alimento stagionale: il cavoletto (o cavolino) di Bruxelles. Si chiama così perché per la prima volta è stato selezionato nelle campagne attorno alla capitale belga nel Tredicesimo secolo e da lì si è espanso in tutte le nazioni circostanti. Inoltre, è detto “cavoletto” e non “cavolo” perché è molto più piccolo del suo “parente” che noi tutti conosciamo forse meglio. Se un cavolo può arrivare a pesare anche diversi chili, un cavoletto di Bruxelles pesa circa 20 grammi. In effetti, i cavoletti sono i germogli ascellari della pianta madre il cui nome scientifico è Brassica oleacea cullata vargemmifera e si raccolgono quando raggiungono i tre centimetri di diametro. Sono a forma di “pallina” e sono costituiti da tanti strati di foglioline sovrapposte.
La prima descrizione di questa verdura risale solo al Sedicesimo secolo, quando fu catalogata e descritta dal medico e botanico olandese Rembert Dodoens nella sua Stirpium historiae pemptades sex del 1583, nella quale sono contenute molte descrizioni di piante dal vero, illustrate con tavole in legno. Proprio per questo certosino lavoro, Dodoens è considerato come il fondatore dell’orticoltura nei Paesi Bassi. Però, solo dopo molti anni dal suo lavoro i cavoletti di Bruxelles furono “battezzati” con il nome che oggi noi conosciamo.
Come dicevamo, i cavoletti, partiti dalle campagne di Bruxelles, approdarono in breve tempo nei campi coltivati in Olanda, Germania e Francia, trovando il clima ideale. Questa pianta non ama né il caldo eccessivo, né il freddo troppo intenso. Se amate questa verdura e abitate che so, nel nord della Finlandia, l’unica cosa che potete fare è creare una serra. Se abitate in Italia (come credo sia, se leggete questo blog), occorre che la coltivazione sia in un luogo ombreggiato. La semina avviene fra maggio e agosto e la raccolta è fra l’autunno un po’ avanzato e fino a gennaio.
Però, credo che pochi abbiano mangiato dei cavoletti appena colti dal campo. Quelli che di solito cuciniamo per accompagnare dei primi o dei secondi piatti, sono quelli confezionati del supermercato e vengono, appunto, dal Belgio, dall’Olanda o dalla Germania: lì li troviamo tutto l’anno. Potremmo anche trovare dei cavoletti di Bruxelles freschi, cioè italiani (lo so, suona strano)… Ma è molto più difficile. Nel Belpaese ci sono delle coltivazioni di questi germogli. Nel 2020 ne abbiamo prodotti più di 55mila quintali su poco meno di 260 ettari. Comunque, se sulle etichette trovate scritto: varietà Westlandia, Anagor, Perfection o Mezzo Nano, sappiate che queste sono le varietà più diffuse in Italia e dunque potreste essere di fronte a cavoletti di Bruxelles italiani (sempre e comunque da preferire). Nel resto dell’Europa le varietà più comuni sono la Cavalier, la Wilhemsburger, la Fest und Fiel e la Hilds Ideal.
Rispetto agli altri cavoli e broccoli più grandi, i cavoletti di Bruxelles sono molto più veloci da cuocere. Si taglia mezzo centimetro del piede e li si butta in acqua e il gioco è fatto. E’ meno usuale mangiarli crudi, anche se da crudi mantengono intatti alcuni micronutrienti: in primo luogo la vitamina C. Un etto ne contiene ben 81 milligrammi, più del doppio della dose giornaliera raccomandata. Mangiarli crudi (o cotti in pentola, a pressione o al vapore) può aiutare a preservare questa vitamina che rafforza il sistema immunitario, combatte le malattie da raffreddamento ed ha un’importante azione antiossidante. Quest’ultima è anche rafforzata dalla presenza della vitamina A: 220 microgrammi ogni 100 grammi che aumentano la resistenza alle infezioni, proteggono la vista e la pelle dai raggi solari e dall’invecchiamento.
Un etto di cavoletti contiene poi 85,7 grammi di acqua; 4,2 di carboidrati; 4,2 di proteine e ben 5 grammi di fibre alimentari che, come tutti ormai sanno, contrastano “l’intestino pigro” e aiutano a proteggere il colon dal tumore. La fibra, associata all’acqua, porta facilmente a sazietà il nostro appetito e per questo i cavoletti di Bruxelles sono l’ideale contorno di un secondo piatto di carne, di pesce o di formaggi ma sono anche un buon condimento per la pasta della quale aumentano il contenuto di fibre.
Inoltre, questa verdura ha il potere di aiutare il cuore essendo una fonte molto forte di Omega 3 che
contrastano trigliceridi e colesterolo. Il cuore viene anche aiutato dalla presenza di potassio che è contenuto in quantità altissima (450 milligrammi ogni 100 grammi). Pensate che la razione giornaliera consigliata di questo elemento è di 2 grammi al giorno. Il potassio però influenza positivamente anche a coordinare la trasmissione nervosa e a ridurre la ritenzione idrica e la pressione arteriosa. Quanto alle calorie, ce ne sono 43 in un etto. Non è tutto rose e fiori, però. La presenza di purine, ad esempio, ne sconsiglia il consumo per chi soffre di iperuricemia o gotta.
Flavio Semprini è un giornalista professionista free-lance. Scrive di sport, enogastronomia, edilizia e turismo e si occupa di uffici stampa e comunicazione per aziende, associazioni ed enti sia pubblici che privati. Ha scritto diversi libri, alcuni sulla cucina romagnola, utilizzando per questi ultimi il doppio pseudonimo di Luigi Gorzelli/Paolo Castini.