Dopo l’articolo su Ugo Tognazzi, continuiamo la nostra carrellata sui personaggi che hanno fatto dell’enogastronomia una passione talmente grande da farla diventare, per loro, quasi una seconda professione. Per gli italiani di una certa età, appassionati di sport e di calcio in particolare, Gianni Brera rappresenta un punto di riferimento. E’ stato un giornalista capace di inventare un linguaggio nuovo nel descrivere il calcio dei suoi anni. Un innovatore dell’italiano, dunque un uomo di cultura come pochi giornalisti, soprattutto sportivi, possono aspirare ad essere. Brera era nato a San Zenone al Po nel 1919 ed è morto nel 1992 in un incidente d’auto sulla strada che da Codogno porta a Casalpusterlengo. Già dalla toponomastica che ho testé citato, si capisce come fosse uomo padano, legato alla sua terra, alle sue consuetudini, al suo cibo e ai suoi vini e, mi verrebbe da dire, anche al suo modo di intendere il calcio.
Per quel che riguarda il gioco del pallone, aveva le sue idee. La nazionale italiana era una “squadra femmina”,
parole sue, dunque destinata a subire gli attacchi avversari per poi partire in contropiede e fare male. Il gioco all’italiana o “contropiede” come lui stesso lo definì, era il suo credo e non apprezzava, per dire, il gioco aggressivo, molto all’olandese, del visionario allenatore romagnolo Arrigo Sacchi che vinse tanto facendo l’esatto contrario di quel che scriveva Brera. Gianni Rivera, il più grande talento del calcio italiano fra il dopoguerra e gli anni ’80, fu da lui definito sprezzantemente “abatino”, perché non aveva vigoria fisica (ma sublime visione di gioco). Gigi Riva da Leggiuno era, invece, “rombo di tuono”. Il giocatore che, grazie a un gesto tecnico batteva o ingannava l’avversario, lo “uccellava”. “Eupalla” era la dea protettrice del gioco… tutti questi termini, e anche molti altri, entrarono nel gergo comune del calcio prima e del comune parlare poi, diventando abituali.
Secondo lo scrittore Luciano Bianciardi, pur essendo noto maggiormente come giornalista sportivo, Brera era molto più bravo come scrittore e come enogastronomo che come cronista. Si può essere d’accordo o meno (io lo sono) ma è certo che nel mondo dell’enogastronomia “Giuan Brera fu Carlo”, come spesso si presentava, ha lasciato un segno. Soprattutto riguardo al vino. Nel 1986 fu pubblicato un divertentissimo ma colto libro intitolato: “Così si Beve il Vino”. Un componimento nel quale il suo gusto per gli aforismi e i neologismi trova ampio spazio: “ogni bottiglia ha una sua anima”; “il vino, come le donne, è buono all’età giusta”; “sarai vero uomo se saprai bere mantenendo costantemente il cervello a pelo di brentina”.
Soprattutto, Brera fornisce consigli azzeccatissimi su come accoppiare i cibi al nettare di Bacco. Si legge che per gli antipasti è consigliato un “bianco secco freddo”; per accompagnare le rane ci vogliono “un bianco secco se sono fritte, Barbacarlo o Barbera se sono in guazzetto”; con la carne è necessario “un vino rosso e mai freddo”. Chi cena a champagne “lo fa per strabiliare”e non è degno d’altro che di essere preso in giro. Riguardo alla tecnica vinicola, in presenza di una vinificazione eccessiva, si esprime in questi termini: “Hai l’impressione, bevendo, di baciare una donna troppo truccata”. Geniale. Insomma, come cantore del vino Brera s’inserisce, senza sfigurare, in un filone che prima di lui può contare su nomi altisonanti quali quelli di Catullo, di Cecco Angiolieri e di Giovanni Pascoli.
Ma attenzione, Brera non è un “beone”, anzi, chi non trattava il vino nel modo giusto, lui lo sbeffeggiava: “Chi gluglueggia con l’epiglottide come le bottiglie mal inclinate alla mescita: per delicato e nobile che sia, il vino se lo pompa come un’oscena birra”. Più esattamente scrive nel suo libro: “Il vino va odorato con un lieve moto circolare del bicchiere, che lo arrubini e appanni prima di ricomporsi. Poi lo si accosta lentamente alle labbra e si alza in modo che la lingua ne sia ragionevolmente bagnata: papille gustative, terminazioni nervose delle gengive e delle guance, palato, retrobocca danno la misura del gusto, dell’acidità, del vigore e di tutte le doti – o difetti – che ho enumerato più sopra. Ma quando si sia definita la classe del vino, allora non bisogna indugiare troppo. Le ingenue ragazzole che centellinano sorso a sorso lo champagne, trattenendolo in bocca al punto da annegare le papille, quelle sono le più facili a perdere la tramontana. Il bere deve essere lento e continuo, quasi a formare sulla minor porzione di lingua un ruscelletto fluido e costante: meno si spande per la bocca e meno il vino ubriaca. Per contro, i bevitori ingordi si sborniano grossolanamente: ubriacarsi è quasi sempre disdicevole; inebriarsi può essere bello ma è ben presto vietato agli abitudinari; bere senza affogare il cervello è piacere sottile e raro, da veri specialisti. Tutto questo ho imparato girando il mondo e soltanto il mio fegato può trovarci da ridire”.
Nel 2019, centenario della nascita, un’azienda di San Colombano al Lambro gli ha dedicato un’etichetta. Il vino preferito da Brera era il Barbacarlo, un vino fatto come una volta: prodotto in quantità limitate, mai uguale a se stesso, che continua a evolversi in bottiglia fino a trenta anni. Dunque un vino molto originale, dell’Oltrepo pavese, creativo e capace di “inventarsi” nel tempo. Proprio come lui.
Flavio Semprini è un giornalista professionista free-lance. Scrive di sport, enogastronomia, edilizia e turismo e si occupa di uffici stampa e comunicazione per aziende, associazioni ed enti sia pubblici che privati. Ha scritto diversi libri, alcuni sulla cucina romagnola, utilizzando per questi ultimi il doppio pseudonimo di Luigi Gorzelli/Paolo Castini.