Il dattero è un frutto che in Italia viene consumato in questo periodo. Comincia ad apparire sugli scaffali di
supermercati e negozi, e poi sulle nostre tavole, nei primi giorni di dicembre e ci resta fino alla befana. E’, insomma, un cibo tipico del Natale (vedremo poi di capire il perché), quando si preparano pranzi e cene più abbondanti che nel resto dell’anno. Questo suo essere un “fine pasto” esclusivamente decembrino lo rende sconosciuto al consumatore medio nostrano: è visto come uno sfizio, una goduria da accompagnare ad altre bontà culinarie ma quasi nessuno si domanda quali caratteristiche organolettiche abbia.
Il nostro amico dattero è una caramella naturale, di forma oblunga e di lunghezza tra i quattro e i sei centimetri, dotato di una polpa molto dolce e carnosa di colore marrone chiaro e di una buccia marrone scuro. I datteri freschi sono di colore rosso acceso ma noi in Italia li possiamo vedere raramente. Questo perché nel Belpaese questo frutto non si coltiva per via del clima che non è adatto. Un “casco” di datteri, per maturare, ha bisogno di temperature vicine ai 40 gradi per tanti giorni dell’anno. Solo in alcune zone della Sicilia si vedono palme da datteri ma queste, il più delle volte, hanno una funzione ornamentale perché non riescono a far maturare i frutti. Inoltre, il dattero è delicatissimo da trasportare appena staccato dall’albero. Così, quelli che ci gustiamo vengono dal Nordafrica (soprattutto dalla Tunisia) e sono essiccati attraverso un procedimento che fa loro perdere circa il 50% d’acqua che contengono.
Il nome dattero deriva dal greco antico dàktylos, cioè “dito”. In effetti, somiglia a una grossa falange e pare sia originario dell’Asia minore. Le prime piante di cui si abbia esistenza provata risalgono a circa cinquemila anni fa. Una palma da dattero può vivere fino a cento anni e il suo periodo di produzione più abbondante va dai trenta agli 80 anni. Ogni “racemo”, cioè ogni grappolo, può produrre fino a 200 datteri contemporaneamente. Le cultivar più famose si chiamano Medjool, Deklet noor, Ameri, Deri, Bheri, Hiann. Ce n’è anche una detta “da amido”, dalla quale i beduini ricavano il cosiddetto “pane del deserto”, necessario per la loro sopravvivenza.
Secondo alcuni racconti, l’imperatore Augusto era un amante di questo frutto e ne pretendeva in abbondanza alla sua tavola. Essendo un frutto dell’area nordafricana e dell’Asia minore, diverse storie legate al cristianesimo e all’islam lo vedono protagonista. Nel vangelo apocrifo di Matteo si narra che, durante il cammino di ritorno dalla città natale di Gesù, Maria avesse avvistato una palma da datteri e che avesse chiesto a Giuseppe di raccogliere dei frutti per cibarsene e acquistare le forze per affrontare il resto del viaggio. Il buon Giuseppe avrebbe risposto di non poter esaudire il desiderio a causa dell’altezza della pianta. Allora Maria avrebbe svegliato il neonato Gesù che avrebbe ordinato all’albero di abbassare i rami per nutrire sua madre. Un racconto simile è narrato anche nel Corano. Secondo l’islamismo, vicino al luogo della nascita di Gesù era presente una palma da datteri e al momento della nascita apparve un angelo a Maria per consigliarla di scuotere l’albero e mangiarne i suoi frutti. Nella Bibbia, più esattamente nel Cantico dei Cantici, alcuni bellissimi versi recitano: “La tua statura è slanciata come una palma/ e i tuoi seni sembrano grappoli/ Ho detto: “Salirò sulla palma/ coglierò i grappoli di datteri”/.
Tre sono le categorie di datteri: a frutto duro, morbido e semimorbido. Quelli a frutto duro sono resistenti e
produttivi e sono usati per farine e dolci tipici arabi. Quelli morbidi sono meno produttivi, costano di più e vengono consumati freschi. Quelli semiduri sono quelli che conosciamo noi: sono destinati all’essicazione e costituiscono oltre il 95% dei datteri secchi in commercio. Dieci datteri secchi (circa 100 grammi) contano 253 calorie. Il 94% sono carboidrati; il 4% proteine e il 2% lipidi. Contengono anche molte fibre solubili e insolubili che aiutano a digerire, a ridurre il colesterolo Ldl, cioè quello “cattivo”, favoriscono il transito intestinale e proteggono dal cancro al colon. Inoltre, grazie agli zuccheri a lento rilascio, il dattero (secco o fresco), può avere un effetto antiglicemico. Insomma, per tutte queste prerogative, si capisce perché sia diventato il fine pasto tradizionale dopo le abbondanti libagioni dei pranzi e delle cene natalizie: più che appesantirci, ci aiuta a smaltire panettoni & co.
Flavio Semprini è un giornalista professionista free-lance. Scrive di sport, enogastronomia, edilizia e turismo e si occupa di uffici stampa e comunicazione per aziende, associazioni ed enti sia pubblici che privati. Ha scritto diversi libri, alcuni sulla cucina romagnola, utilizzando per questi ultimi il doppio pseudonimo di Luigi Gorzelli/Paolo Castini.