“Una mela al giorno leva il medico di torno” – si dice. Però, anche approfittare dei cachi, frutti di stagione che giungono a maturazione proprio nel periodo che va da fine settembre a metà novembre, può essere un’ottima idea per prendersi cura di se stessi. La pianta del caco viene da una regione della Cina centro settentrionale, dove anticamente era chiamata “L’albero delle sette virtù” perché vive a lungo; le sue foglie sono decorative e quando cadono concimano il terreno; il suo legno brucia bene; fa molta ombra; lascia spazio agli uccelli per nidificare fra i suoi rami; è difficilmente attaccabile dai parassiti. Il grande botanico svedese Carlo Linneo, padre della classificazione scientifica moderna di tutti gli organismi viventi, nella sua genialità aveva chiamato questi frutti Diospyros kaki. In altre parole, frumento (spyros) di Dio (dios). Insomma, il classico “cibo degli dei”.
Già prima che i cachi arrivassero in Europa verso la metà del diciannovesimo secolo (Linneo li classifica più di cento anni prima, durante il Settecento), era dunque chiaro che si trattasse di un frutto davvero prezioso. Se furono prima i fiorentini o i milanesi a importare i cachi in Italia, è oggetto di diatriba. Secondo alcune fonti, le prime piante di questo frutto arrivarono nel Belpase venendo ospitate nei grandi giardini di Boboli, a Firenze, nel 1871. Secondo altri, furono i vivaisti milanesi Francesco, Vittorio e Paolo Ingegnoli (la Fratelli Ingegnoli è tuttora operante: nata nel 1789, è giunta oggi alla settima generazione di florovivaisti e botanici), a importare la prima pianta di cachi dal Giappone nel 1880, dove si era diffusa dalla vicina Cina. C’è anche una lettera del 1888, firmata da Giuseppe Verdi, che ringrazia i tre fratelli dopo averne assaggiati di squisiti. Gli Ingegnoli avevano trovato un testimonial mica da ridere.
Dai primi anni del Novecento la coltivazione di questa pianta si espande in tutta Italia, trovando terreno fertile in Campania (soprattutto nell’Agro Nocerino), in Sicilia e da noi in Romagna (soprattutto nel forlivese). Attualmente, nel nostro Paese, produciamo circa 500mila quintali di cachi su 2500 ettari coltivati. Siamo il secondo produttore europeo dopo la Spagna e fra i primi dieci al mondo. In testa c’è la Cina che continua a dominare il mercato da sempre: nel 2018 aveva prodotto poco più di tre milioni di tonnellate di cachi.
Perché diciamo che questo frutto è prezioso per la salute? Perché contiene dei principi
nutritivi colmi di effetti benefici. Cominciamo a dire che un etto di cachi apporta circa 65 chilocalorie con il 18 per cento di zuccheri. Dunque, il caco è in grado di fornire energia immediata, utile per bambini, anziani e sportivi. Per il resto, contiene 3,6 grammi di fibre (ottime per chi soffre di stipsi) e un altro 80 per cento di acqua che lo rende un veloce idratante. Fa bene pure a chi soffre di ritenzione idrica grazie al potassio (161 mg) e al calcio (8 mg) i quali aiutano anche a eliminare i liquidi in eccesso e a disintossicare il fegato.
I cachi ci aiutano a combattere i malanni del freddo grazie a 7,5 mg di vitamina C; 0,10 di vitamina B3 e vitamina B6; 0,02 mg di riboflavina e 0,03 mg di vitamina B1. Il betacarotene, la beta-criptoxantina, la luteina, la zeaxantina e il licopene combattono l’invecchiamento. I caroteni e le xantofille che lo compongono aiutano a tenere sotto controllo il calo della vista e anche altri danno ossidativi dell’organismo che potrebbero essere causa di tumore. Anche l’acido botulinico che si estrae dal caco ha effetti anti tumorali e le catechine (sostanze antiossidanti) presenti nella polpa hanno grandi capacità antiemorragiche, anti-infettive e anti-infiammatorie.
Ecco perché possiamo dire che, come la mela nel corso dell’anno, in questa stagione anche un caco al giorno leva il medico di torno.
Flavio Semprini è un giornalista professionista free-lance. Scrive di sport, enogastronomia, edilizia e turismo e si occupa di uffici stampa e comunicazione per aziende, associazioni ed enti sia pubblici che privati. Ha scritto diversi libri, alcuni sulla cucina romagnola, utilizzando per questi ultimi il doppio pseudonimo di Luigi Gorzelli/Paolo Castini.