Si fa presto a dire “aceto balsamico”. In verità, dovremmo quantomeno specificare: “Aceto Balsamico Tradizionale di Modena (e Reggio Emilia)”, oppure: “Aceto Balsamico di Modena”. Il termine aceto balsamico è di uso comune ma forse è un po’ troppo generico per descrivere questi condimenti agrodolci prodotti, appunto, nelle provincie di Modena e Reggio Emilia.
Ma come mai proprio in quei luoghi si è sviluppato questo modo di intervenire sugli aceti? Beh… dobbiamo dire che la storia dell’aceto balsamico risale alla notte dei tempi. Tramite alcuni reperti storici sappiamo che i babilonesi lo ricavavano facendo fermentare datteri, fichi, albicocche e lo usavano come condimento o per conservare altri alimenti. Più tardi saranno i Greci, esperti viticoltori, a farlo conoscere ai romani come prodotto secondario rispetto al vino e a Roma conoscerà un gran successo tant’è che sulle tavole imperiali spesso si vedeva l’acetabulum, ovvero il contenitore degli aceti. Tra i romani della pianura padana, la produzione di questa sorta di mosto cotto diventa un’attività
comunemente praticata, per la quale esisteva persino un verbo specifico: defrutare.Questa pratica, nel corso dei secoli, si conserva in quelli che oggi definiamo gli antichi domini estensi dove l’abitudine di ogni famiglia era di intervenire sugli aceti casalinghi con droghe, liquirizie, rosmarino, rose, vaniglia, oppure producendoli con differenti materie prime (trebbiano, moscato…), creando così nei secoli una diffusa fama per gli “aceti alla modenese”.
Nei registri delle cantine del Palazzo ducale di Modena, che si trovavano a Rubiera, compare l’aggettivo balsamico, riferito all’aceto, per la prima volta nel 1747, per distinguere una particolare tipologia rispetto alle altre presenti nel palazzo. Alla fine dell’Ottocento l’aceto balsamico di Modena comincia a comparire nelle più importanti manifestazioni espositive, creando grande interesse non solo sul territorio ma anche a livello internazionale.
Dal punto di vista normativo la prima autorizzazione ministeriale a produrre “l’Aceto Balsamico del Modenese” risale al 1933. Nel secondo dopoguerra il boom economico e l’espansione dei consumi portarono alcuni produttori a commercializzare col nome “Aceto Balsamico” un prodotto differente da quello tradizionalmente preparato nelle soffitte private, fondando il nome sull’usanza storicamente presente di procedere a tagli con aceto di vino per il normale consumo quotidiano. L’aceto balsamico divenne quindi un prodotto comune sulle tavole di tutta Italia, iniziando a farsi largo anche in molti Paesi stranieri. La stesura del primo disciplinare di produzione dell’aceto balsamico di Modena è del dicembre 1965. Nel 1976, vista l’ormai sostanziale identificazione del termine “balsamico” con l’aceto di tipo “industriale”, venne adottata la definizione di Aceto balsamico “naturale”, per indicare e distinguere quello prodotto secondo la definizione dell’ente “Consorteria dell’Aceto Balsamico Tradizionale” di Spilamberto che dal 1967 lo promuove e lo tutela. Qualche anno dopo, per esigenze di carattere legislativo, il termine “naturale” fu sostituito con “tradizionale“. In definitiva, oggi si distinguono due prodotti: l’aceto balsamico tradizionale nelle due versioni di Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP e Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia DOP e L’Aceto Balsamico di Modena IGP che è quello più diffuso perché non richiede un lungo invecchiamento.
Per ottenere l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena/Reggio Emilia DOP, s’inizia con la riduzione e concentrazione mediante cottura del mosto di uve locali (prevalentemente Lambrusco e Trebbiano). Il mosto cotto viene quindi fermentato, acetificato e invecchiato in botti di legno per un periodo minimo di dodici anni (!), durante i quali il prodotto si concentra ulteriormente in modo naturale e al termine del quale inizia a rendere una quantità annuale di prodotto pari a 2/3 litri sui 35-40 di prodotto fresco che ogni anno vengono rincalzati in una batteria di botti media. Prelevato dalle più piccole, il prodotto deve essere assaggiato e approvato da una commissione di assaggiatori esperti, prima di poter essere imbottigliato presso il centro autorizzato nella bottiglietta tipica da 100 ml. Solo allora il prodotto potrà essere denominato “Aceto Balsamico Tradizionale” di Modena o Reggio Emilia DOP. Ogni bottiglietta reca un sigillo numerato, e riporta sia l’etichetta legale del centro d’imbottigliamento autorizzato sia l’etichetta del produttore. Le DOP reggiana e modenese si distinguono fra loro per la forma delle bottigliette in cui il prodotto è venduto (entrambe comunque di 100 ml). Il “tradizionale” che supera i venticinque anni d’invecchiamento e un punteggio minimo da parte della commissione d’assaggio, sia modenese che reggiano, può essere venduto con la dicitura extravecchio, accompagnata da una capsula o da un bollino di color oro. Il “tradizionale” di Reggio Emilia, inferiore ai venticinque anni, viene ulteriormente distinto in “bollino aragosta” e “bollino argento“, a seconda del punteggio ottenuto dal prodotto in fase d’assaggio.
L’Aceto Balsamico di Modena IGP, quello “non tradizionale”, è sempre prodotto nelle provincie di
Modena e Reggio Emilia pur essendo definito dall’IGP unicamente come di Modena. Viene ottenuto unendo mosti di uva (fermentati e/o cotti e/o concentrati) e aceto di vino, più un’eventuale aggiunta di colorante (di solito caramello, massimo al 2%) per stabilizzare il colore. Generalmente il sapore è caratterizzato da un’acidità vinosa, ossia più aspra e marcata da un punto di vista sensoriale. È richiesto un invecchiamento minimo di due mesi, non necessariamente in contenitori di legno, che salgono a tre anni per la dicitura “invecchiato”. Vista la possibilità d’industrializzazione del processo produttivo, un’azienda di medie dimensioni può arrivare a produrne diverse centinaia di litri al giorno. Insomma, si tratta di due prodotti diversi sui quali speriamo di avervi un po’ chiarito le idee.
Flavio Semprini è un giornalista professionista free-lance. Scrive di sport, enogastronomia, edilizia e turismo e si occupa di uffici stampa e comunicazione per aziende, associazioni ed enti sia pubblici che privati. Ha scritto diversi libri, alcuni sulla cucina romagnola, utilizzando per questi ultimi il doppio pseudonimo di Luigi Gorzelli/Paolo Castini.