C’è un momento preciso, nella mia memoria, che segna la fine dell’estate. E non è detto che questo fosse un momento triste. Anzi, era un momento in cui la famiglia si ritrovava insieme dopo aver lavorato più che duramente per tutto quel periodo. In molti si faceva la stagione: chi al mare; chi negli alberghi; chi in qualche negozio. Anche i più giovani, come lo ero io al tempo, si davano da fare per contribuire al bilancio familiare, per cui l’estate non era solo il momento della spensieratezza ma anche del duro impegno lavorativo.
Ma quando arrivava il momento di ritrovarsi per fare la passata di pomodoro, capivi che agosto stava terminando e l’estate volgeva al termine. E tutti quanti si armeggiava attorno a pentoloni bollenti per eseguire questo rito casalingo. Magari a turni, visto che ancora si era impegnati con le attività lavorative. Si tratta di una tradizione molto praticata dalle famiglie di tutta Italia e risale perlomeno alla fine del Cinquecento, quando si cominciò a utilizzare questa verdura (ma secondo la botanica si tratta di un frutto), che proveniva dal Centro America. Comunque, sulla storia del pomodoro ci soffermeremo in uno dei nostri prossimi articoli su questo blog. Oggi ci concentriamo sulla “passata casalinga”.
Il rito iniziava con l’acquisto delle cassette di pomodori San Marzano da parte di mio padre da un contadino amico di famiglia. Pomodori belli rossi, ricchi di sole e maturi al punto giusto. Quando il babbo, con la sua Ape 50, tornava con il gustoso carico, il garage di casa si trasformava da ricovero per le auto a ribollente cucina. E ognuno di noi aveva un compito preciso da svolgere. A soprassedere al tutto, mia nonna e mia mamma che da vere “azdore” dettavano i tempi di lavoro agli uomini di famiglia. Quando si dice “girl power”…
Noi preparavamo circa due quintali di pomodori. La famiglia era numerosa e, a volte, anche qualche vicino di casa partecipava comprando questi ortaggi meravigliosi assieme a noi. La prima cosa da fare era controllare tutti i pomodori uno a uno per verificare che non avessero ammaccature o non fossero marci. Si eliminavano i piccioli e si lavavano con somma cura prima di metterli a sgocciolare. Finita questa prima operazione, i pomodori venivano tagliati in quattro parti (a croce), e venivano eliminati tutti i semi. La seconda cosa da fare era sterilizzare i vasetti che sarebbero stati usati come contenitori, facendoli bollire in abbondante acqua.
A questo punto, si mettevano i pomodori in grandi pentoloni per farli “appassire” a fuoco lento, mescolando ogni tanto con lunghi cucchiai di legno. Quando risultavano belli spappolati, li toglievamo dal fuoco. Mentre bollivano, ricoprivamo alcuni grandi mastelli con dei teli sui quali poi avremmo posto a scolare i pomodori per eliminare l’acqua in eccesso. Finito di scolare, trasferivamo i pomodori in dei “passaverdure” dai quali usciva, finalmente, la salsa.
Dentro ogni vasetto precedentemente sterilizzato versavamo, con l’aiuto di un imbuto, la salsa ottenuta, lasciando uno o due centimetri dal bordo e aggiungendo un paio di foglie di basilico. Dopo esserci assicurati che i vasetti fossero chiusi molto bene, li mettevamo a bollire a fuoco forte in un pentolone, facendo attenzione che questi barattoli di vetro fossero ben distanziati l’uno dall’altro per evitare possibili contatti e rotture. Iniziata la bollitura, tenevamo il fornello acceso sotto il pentolone per almeno un’altra mezz’ora, in modo da assicurarci una sterilizzazione perfetta. Una volta spento il fuoco, lasciavamo raffreddare senza togliere i vasetti dall’acqua, anche fino al giorno dopo, per evitare che qualche barattolo in vetro si rompesse. Quando i contenitori diventavano freddi, premevamo il tappo per verificare che il sottovuoto si fosse formato correttamente. Se non c’era nessun “clik clak”, le cose erano andate come da manuale. Infine, riponevamo la passata in una cantina fresca e al riparo dalla luce, dove la conservavamo per un anno al massimo. Fino all’agosto successivo quando il rito si ripeteva.
Flavio Semprini è un giornalista professionista free-lance. Scrive di sport, enogastronomia, edilizia e turismo e si occupa di uffici stampa e comunicazione per aziende, associazioni ed enti sia pubblici che privati. Ha scritto diversi libri, alcuni sulla cucina romagnola, utilizzando per questi ultimi il doppio pseudonimo di Luigi Gorzelli/Paolo Castini.