Quando si parla di Lambrusco, bisogna andarci con i piedi di piombo. Facile cadere nella tentazione di descriverlo come un vinello di poco valore, adatto a tavole non troppo esigenti. Averne questa considerazione è un errore clamoroso, anche se comprensibile. Ma andiamo con ordine e proviamo a spiegare perché.
Nella prima metà del Novecento il Lambrusco era un vino decisamente secco e la sua schiuma, proprio come per lo Champagne, era prodotta mediante una seconda fermentazione in bottiglia. Negli anni Sessanta, con l’avvento di nuove tecnologie e con l’introduzione del metodo Charmat, la produzione del Lambrusco aumentò notevolmente. Il metodo Charmat (studiato dall’italiano Federico Martinotti e brevettato dal francese Eugène Charmat), prevede una seconda fermentazione del vino in grandi contenitori pressurizzati, chiamate autoclavi. Le grandi cantine sociali di allora, adottando questa tecnica, più produttiva e veloce del metodo classico, aggredirono l’enorme mercato americano “vendendo” il Lambrusco come una bevanda da “aperitivo”; poco alcolica, piacevole e abboccata. Ancora oggi, in molti sono convinti che quest’antico e nobile vino sia questo tipo di bevanda. In realtà, già dagli anni Novanta del secolo scorso dei bravi produttori tornarono a badare più alla qualità che alla quantità e, grazie a loro, oggi possiamo godere di lambruschi Doc e di grande qualità, più secchi e consistenti. Quasi un ritorno alle origini.
E, a proposito di origini, del Lambrusco sappiamo molto fin dall’epoca romana, anche se diversi studiosi sostengono che a coltivare queste viti, per primi, siano stati gli Etruschi. In ogni caso, una testimonianza su questo vitigno ce la fornisce nientepopodimenoche Publio Virgilio Marone, poeta latino per eccellenza, che già abbiamo incontrato nel nostro blog quando abbiamo parlato della piadina. Virgilio parla della “Vitis Labrusca” nel quinto libro delle Bucoliche, una raccolta di poesie pastorali ritenute fondamentali per la storia della letteratura latina. Anche altri grandi scrittori e scienziati di epoca romana parlarono di questa vite: Catone, Varrone e l’enciclopedico Plinio il Vecchio, che abbiamo già incontrato, pure lui, quando abbiamo scritto di altri vini come Trebbiano e Sangiovese e di formaggi in generale.
Dove sia nata questa vite, non si sa. L’istinto farebbe propendere proprio per le zone nelle quali oggi il Lambrusco viene prodotto. In fondo, Virgilio era di Mantova, terra che oggi conta il Lambrusco Mantovano Doc. Nel 1305, il giudice bolognese Pietro de Crescenzi, nel suo peregrinare per i tribunali della Penisola, fra i
quali anche quelli di Modena, Parma e Reggio, suggerisce nella sua famosa opera, il Ruralium Commodorum libri XII (uno dei soli tre libri sull’agricoltura pubblicati NEL MONDO durante il Medioevo), di “allevare la vite labrusca”. Nel 1567, il medico e botanico Andrea Bacci scrive nel suo “De Naturali vinorum Historia” che “sulle colline di fronte alla città di Modena si coltivano lambrusche, uve rosse, che danno vini speziati, odorosi, spumeggianti per auree bollicine, qualora si versino nei bicchieri“. Insomma, per quanto non si sia in grado di citare con sicurezza la provenienza di questa vite, sappiamo per certo che proprio in quelle zone dove oggi lo troviamo, è radicato da più di duemila anni.
Per ciò che riguarda l’origine del nome, si propende per due ipotesi. La prima che derivi da labrum (margine dei campi) e ruscum (pianta spontanea): la vite “la-brusca” sarebbe quella che cresce incolta ai margini dei campi. La seconda attribuisce l’origine alla fusione dei termini labo (prendo) e ruscus (che punge il palato), da qui anche l’origine della parola “brusco”, identificativa dei vini giovani, aspri ma non sgradevoli.
Del Lambrusco, esistono ben sette Doc, ognuna con caratteristiche proprie: Colli di Scandiano e di Canossa, Salamino di Santa Croce, Sorbara, Reggiano, Grasparossa di Castelvetro, Modena, Mantovano. Tutte quante si sposano bene con i prodotti della cucina emiliana, a partire dai grandi salumi di Parma e dintorni: Prosciutto di Parma, Culatello, Salame Felino, Coppa. Un tagliere di queste tipicità, accompagnato da scaglie di Parmigiano-Reggiano e da un bicchiere di Lambrusco, è un antipasto ideale. In inverno, è golosissima una merenda pomeridiana a base di gnocco fritto, salame (o prosiuctto crudo) e Lambrusco. Ma questo vino è anche ottimo con le tradizionali paste dell’Emilia-Romagna: tortellini, anolini, cappelletti, tagliatelle all’uovo e agnolotti. A mio parere è perfetto con un cotechino o uno zampone, ma va bene anche con gran parte delle carni rosse, con stracotti di manzo, col galletto in umido o con arrosti di carne bianca. A dir la verità, c’è chi lo sceglie anche col pesce e con i dolci, ma io direi proprio di no, ché ci son vini decisamente più adatti. Unica eccezione, forse, la Torta Sbrisolona, tipico dolce mantovano secco e friabile, al quale si può accompagnare un Lambrusco Mantovano Doc.
Flavio Semprini è un giornalista professionista free-lance. Scrive di sport, enogastronomia, edilizia e turismo e si occupa di uffici stampa e comunicazione per aziende, associazioni ed enti sia pubblici che privati. Ha scritto diversi libri, alcuni sulla cucina romagnola, utilizzando per questi ultimi il doppio pseudonimo di Luigi Gorzelli/Paolo Castini.