Perché il Culatello di Zibello è definito il re dei salumi? E’ presto detto. Innanzitutto, è prezioso. La produzione annua di Culatello di Zibello Dop, cioè a denominazione di origine protetta, non supera i 50/60mila pezzi. Al cliente finale, può venire a costare circa 70 euro al chilo. Un prezzo così alto, si giustifica pienamente con il fatto che il Culatello è una parte molto pregiata del maiale. Si tratta, infatti, del muscolo della coscia, la parte alta, posteriore, interna. In pratica, nel lavorarlo si tolgono la cotenna, il grasso, l’osso e il fiocchetto. Rimane solo carne magra pregiata con parti di grasso bianco. Poi, necessita di un disciplinare giustamente molto rigido. La lavorazione è altamente artigianale: per godere della Dop, può essere prodotto solo a Zibello, Busseto, Polesine Parmense, Soragna, Roccabianca, San Secondo, Sissa e Colorno. Piccoli paesini della bassa parmense verso il fiume Po; villaggi dove la lavorazione del maiale, più che un mestiere, è un’arte che confina con una ritualità quasi religiosa. Il sapore è davvero caratteristico: molto delicato, dolce e leggermente affumicato. A conferirgli questo sentore e questo profumo sono, oltre alla lavorazione, la stagionatura (che non deve essere inferiore ai dieci mesi per le pezzature più piccole da tre chili, mentre deve arrivare almeno ai 14 mesi per tutte le altre pezzature) e le muffe naturali che solo in quel territorio, così caldo e umido d’estate e nebbioso in inverno, possono donargli il suo tipico sapore. Chi vive in quelle zone, quando descrive le caratteristiche di questo insaccato, spesso e volentieri dice che il Culatello: “Sa di nebbia”.
Non esistono fonti certe ma molti sostengono che il Culatello già si consumasse in epoca medievale e che facesse parte delle tavolate dei nobili dell’epoca. Fin da allora, sarebbe stato un cibo non proprio alla portata di tutti, diciamo così. La prima testimonianza certa dell’esistenza del Culatello si ha nel 1735 quando, in un documento amministrativo del Ducato di Parma (allora la città era governata da Carlo I di Borbone che tre anni più tardi sarebbe stato incoronato re delle Due Sicilie), si leggono i prezzi delle “parti” ottenute dalla lavorazione del maiale. E, anche in questo caso, il prezzo del Culatello superava di molto quello di tutte le altre pezzature. Da allora questo insaccato sarà nominato in tanti altri documenti anche con il nome di “Investitura”, perché il nome Culatello veniva considerato un po’ volgare.
Di Culatello parlerà anche il “vate” Gabriele D’Annunzio in un carteggio con l’amico scultore Renato Brozzi. Brozzi, che abitava a Roma ma era nato a Traversetolo, in provincia di Parma, conosceva molto bene il Culatello e ne fece dono, una volta, a D’Annunzio. Il quale gli scrisse: “Carissimo, ti farò sorridere. Io sono cupidissimo amatore del parmense Culatello (con una t o con due?). Esausto dalla malinconia operosa, dianzi sentivo i morsi della fame… Mentre gridavo, non senza ferocia: “Subito, subito tre fette di Culatello!”, la donna appariva con i tuoi pacchi preziosi. Il più grande aveva la forma conica della compatta cosa di fibra rossa e salata. Oh, fratello, l’allucinazione della fame m’ha strappato un grido di riconoscenza e di felicità: Brozzi! Un Culatello! E come ci hai pensato?”.
E pensare che, secondo alcune fonti, il Culatello nasce per un errore in seguito ad un maldestro taglio di un prosciutto e la conseguente necessità di sezionarlo in più parti. In realtà, è il clima umido della bassa parmense a impedire la stagionatura della coscia suina intera. Per questo è necessario disossare il prosciutto fresco e stagionare separatamente le parti ottenute, ovvero il Culatello e la parte più piccola, il Fiocchetto.
Come deve avvenire la lavorazione? Per cominciare, il Consorzio del Culatello di Zibello Dop, stabilisce che la lavorazione
può avvenire solo fra ottobre e febbraio. La carne deve essere quella di suini adulti delle razze Large White Landrance e Duroc, allevate esclusivamente in Emilia-Romagna e Lombardia con metodi tradizionali. Di questi maiali si usa, come scritto all’inizio, la parte più pregiata della coscia e la si lavora tutta a mano e “a caldo”, ossia non oltre le ventiquattro ore dalla macellazione. Questa scelta permette una piccola riduzione della temperatura della carne e il processo di disidratazione da raffreddamento naturale. Il processo prevede poi la rifilatura (sempre a mano). Si asportano femore e grasso in eccesso fino a ottenere la classica forma “a pera” del Culatello. Si procede poi alla salatura manuale. Oltre al sale, vengono aggiunti nitrato di sodio e potassio (nel rispetto dei limiti di legge e del disciplinare); pepe in grani spaccati e una “pastura” composta da vino bianco secco e aglio pressato. La tradizione vuole che si usi circa il 3,3% di sale, calcolato in rapporto al peso della coscia. Il periodo di salatura può variare da uno a sei giorni. Una volta terminata la salatura, il Culatello passa un periodo di riposo in una cella frigorifera, a una temperatura compresa fra 0 e 5 gradi. In questo modo, si agevola l’assorbimento del sale che, nel complesso, sarà inferiore al 2,8% del peso della coscia.
Poi il Culatello deve essere lavato, asciugato e insaccato nel budello naturale dell’animale. Una volta rivestito, si procede con la legatura. La successiva asciugatura
può variare dai 30 ai 60 giorni, a seconda delle condizioni climatiche. La temperatura di asciugamento, via via crescente, va dai 14 ai 18 gradi, con umidità del 75-85%. In questo modo, la disidratazione della carne sarà lenta e si eviterà la formazione di una crosta superficiale. Infine, rimane la stagionatura, della cui durata abbiamo già detto. La maturazione avviene in cantina o in ambienti chiusi. Nell’uno e nell’altro caso, la temperatura dovrà essere compresa fra i 13 e i 17 gradi, con un’umidità relativa dell’80-85%.
Flavio Semprini è un giornalista professionista free-lance. Scrive di sport, enogastronomia, edilizia e turismo e si occupa di uffici stampa e comunicazione per aziende, associazioni ed enti sia pubblici che privati. Ha scritto diversi libri, alcuni sulla cucina romagnola, utilizzando per questi ultimi il doppio pseudonimo di Luigi Gorzelli/Paolo Castini.