Mettiamo subito in chiaro una cosa: quello che si chiama minestra è indifferentemente un piatto di cappelletti in brodo o un piatto di tagliatelle al ragù. In brod e d’asot, cioè minestra in brodo e asciutta. Insomma quello che chiamiamo con un termine da ristorazione primo piatto è una visione multiforme di pietanza a cui spetta il diritto di piatto principale sulle nostre tavole. La sua peculiarità sta nell’arte e nella sapienza di fare la pasta in casa, tradizione che viene tramandata da generazioni; ed è quello il valore della parola minestra. Nel parlare di oggi ha perso parte del suo significato originale, è diventata un po’ anacronistica e potrebbe fare pensare alla sola minestrina per degenti cotta in brodo vegetale, ma nei suoi contenuti c’è il caposaldo della nostra cultura culinaria. Non c’è pietanza che tiene il confronto: la pasta fatta in casa è la regina delle nostre tavole. C’è sempre l’arzdora (la reggitrice, la padrona della casa e fino alla giurisdizione del pollaio) che gestisce e amministra questo rito così caro a noi romagnoli. E allora la memoria vede che alza il coperchio della madia (matra), prende la farina e con lo setaccio (stacc) separa la crusca dal fiore della farina. Solo il fiore è destinato al nobile impiego per fare la sfoglia. Ci va un uovo di gallina per ogni persona e tanta farina necessaria per spegnerle al fine di ottenere la consistenza giusta dell’impasto. Con la sapienza e col rullare del mattarello (s-ciadur) sul tagliere (panèra) in poco tempo sarà pronta la sfoglia (spoja), piena di un giallo rassicurante che starà lì stesa sul tagliere ad asciugare in attesa di essere lavorata. Da quel momento in poi si propone un fantastico ventaglio di luci colorate: dalle tagliatelle ai cappelletti, dai tagliolini alle pappardelle, dai quadrettini alla pasta al forno e così via. Le tavole dei più poveri o dei contadini potevano contare molto raramente sulle uova per fare la sfoglia e per questo ricavavano un impasto biancastro o giallastro, se venivano mescolate la farina di granoturco e di grano. Qua il ventaglio delle luci è meno luccicante e viene ristretto a pochi nomi che non hanno nemmeno la traduzione in italiano, nomi che si sono persi e sono rimasti solamente nella memoria delle teste ormai canute: barafuc, tajadlot, maltajed. Però i tempi frenetici di oggi non ci hanno tolto la tradizione della pasta fatta in casa, anche se non è possibile rinverdirla ogni giorno. Però si rispolvera in vista di qualche giornata speciale o di qualche ricorrenza in famiglia. E che dire del Natale e del Capodanno? Qui si muove l’intera regione di arzdore, tra nonne, mamme, zie, cognate, nuore, vicine di casa e aspiranti arzdore, scelte tra fanciulle e giovanette. Viene mobilitato tutto l’ esercito di volontarie del gentil sesso per far fronte alle esigenze obbligatorie della gola, prontamente e degnamente soddisfatte dal più tradizionale dei piatti natalizi: i cappelletti in brodo (caplét te brod) . Badate bene che nel brodo gioca un ruolo fondamentale la carne del cappone che va quasi a sostituire quella di manzo. Di fronte a tale mobilitazione di capponi, arzdore, uova e farina, anche il Signore Gesù Cristo diventa comprensivo e attenderà con amorevole pazienza il compimento del rito!
Riferimenti bibliografici
* Pellegrino Artusi da “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” presentazione di Ave Ninchi – Editori Newton Compton** G. Quondamatteo, L. Pasquini, M. Caminiti “Mangiari di Romagna” – Giudicini e Rosa Editori – BolognaMolti spunti di questo articolo sono presi dal “Grande dizionario gastronomico ( e ricettario) romagnolo” di Gianni Quondamatteo – Grafiche Galeati Imola
Nato a Misano Adriatico (RN) nel 1951, mi sono diplomato come perito chimico industriale nel ’70 e laureato in farmacia nel ’74.
Ho collaborato per 3 anni con le farmacie di Riccione, per essere poi assunto nel settore ospedaliero, settore analisi e trasfusioni di sangue.
Ad oggi, mi occupo di diagnostica per immagini nel settore veterinario.